venerdì 4 gennaio 2008

Il maestro gentiluomo.




Nei primi anni ottanta, ero solito recarmi con mio padre a Cortale, paese che mi affascinava sia per la sua posizione geografica che per la gente ancora radicata alle sue origini rurali. A Cortale viveva il Maestro Andrea Cefaly (allora ottantenne) che io conoscevo solo per fama, e dalle parole di mio padre che ne elogiava e sottolineava le grandi doti umane e artistiche. La prima volta che mi trovai al suo cospetto, mi venne incontro un uomo dimesso, minuto, dai modi nobili e nello stesso tempo fuori dal tempo: aveva in sé una carica umana, un carisma, una personalità che mi carpirono subito in un vortice di sensazioni quasi oniriche, ma reali; un emozionante impatto che mi fece subito comprendere la sua grandezza. Il suo parlare timido e discreto, quasi sottovoce si districava nell’ovattata casa paterna, in cui il disordine alimentava la sua creativa vena artistica, mentre gli oggetti sparsi nella penombra suggerivano motivi di ispirazione alle tele del maestro. Sulle colline, che circondavano il paese, calava la sera; il maestro certo di poter ancora ultimare il suo lavoro accelerava l’impegno nella luce flebile che penetrava dalle finestre affacciate sul giardino di casa Cefaly. Quella luce, come per incanto, veniva catturata dalle sue mani, in una sintesi perfetta di gesti istantanei trasferita alla tavolozza insieme ai colori e poi sulla tela con morbidi pennellate, con tocchi rapidi e disomogenei, riuscendo davanti ai nostri occhi a compiere uno dei suoi tanti prodigi artistici. Il volto gli si illuminava quasi a manifestare nella creazione sulla tela una divina intercessione, le narici intensamente espressive e le ciglia arcuate davano dimensione al suo impegno nel raggiungimento del culmine pittorico. Durante il suo lavoro un silenzio irreale penetrava nei nostri corpi, nelle cose, quasi congelando ogni attività: nella grande stanza, che fungeva da studio e soggiorno, sembrava che la vita avesse imposto una pausa, un momento di attesa, il preludio ai gesti del maestro, alle incantevoli mani che sortivano meraviglie, cancellando ogni nostra ansia, ogni affanno per il tempo trascorso immobili e muti. Per noi affezionati a quel grande uomo, si faceva fatica a restare fermi, insensibili, privi di anima artistica; era interessante osservare tutti i passaggi che don Andrea (come era da noi chiamato) compiva per finire la sua opera. Era straordinario il fatto che un uomo, apparentemente inerme e piccolo come lui, avesse una forza interiore enorme, che si leggeva nei suoi dipinti e nei colori che imprimevano al soggetto immortalato grande energia, una simbiosi di carica vitale e di tono, tensione emotiva e simbolismo pittorico. Di tanto in tanto, quasi come per spezzare l’ansia e l’attesa creata in noi nel vederlo dipingere, si lasciava andare a brevi monologhi sull’arte, le sue esperienze Casoratiane, ai lunghi anni trascorsi a Cortale dopo la guerra e molto raramente, solo se veniva sollecitato, a divagazioni sulla pittura. Non parlava mai delle sue esperienze affettive, delle delusioni che ebbe forse per un amore non ricambiato per una donna che, nei lontani anni torinesi, faceva parte del suo gruppo nello studio Casorati e che, probabilmente, causò il suo distacco da quella realtà, tanto da decidere definitivamente il ritorno a Cortale. Una ferita, come apparì a molti, che probabilmente modificò la sua vita e l’ottica dalla quale il Maestro era solito distinguere le cose. Anche l’artista, che talvolta è in grado di scindere la sua professione dal contesto e dagli affetti che animano le sue giornate, in quel frangente produsse la rottura con un mondo in cui tutto veniva rifiutato, cancellato: l’abbandono dello studio Casorati (1927) si tradusse in una fase pittorica nuova, documentata da una rinnovata fase impressionistica meno rigida, meno formale, più personale, ispirata a dei canoni che privilegiavano lo spirito interpretativo di chi osservava, dando energia e colore alle opere. La grande umanità di Cefaly era proverbiale, certamente caratteriale e non esercitata dall’importanza e dal prestigio della sua famiglia. Egli in paese veniva stimato e ossequiato da tutti, era frequente assistere ,quando il Maestro usciva sulla strada, al popolo tutto che omaggiava l’illustre concittadino e lui, molto timidamente ma con fare rispettoso, si toglieva il cappello in segno di saluto e ringraziamento, non prima di aver chiesto notizie e ricevuto assicurazione sulla salute dei familiari del conoscente di turno. Le sue giornate erano un avvicendarsi di un numero imprecisato di amici; arrivavano dai luoghi piu’ remoti senza distinzione di stagione o di tempo, talvolta legati a lui da sincera e incondizionata amicizia, talvolta desiderosi di ricevere in dono una tela del maestro, che lui spontaneamente regalava anche a chi non gliela chiedesse. Nella sua dimora era usuale brindare con tutti con un liquore, che teneva sempre pronto per i suoi numerosi ospiti: quasi un rituale che serviva a trasformare quell’incontro in festa, in conviviale partecipazione, in una sorta di brindisi augurale per la salute del Maestro. Era raro, ma non inusuale, incontrare nello studio la sua donna: Caterina, una vecchina simpatica, arguta, di modi ancora semplici e paesani, ma dal grande cuore e dalla genuina ospitalità: era lei che spesso invitava la gente a prendere posto e a intrattenerla quando il maestro dipingeva. La prima impressione vedendoli vicini è che ci fosse una sintonia sottile, quasi di complicità nascosta tra di loro; nei lunghi silenzi gli occhi dell’artista si posavano sul volto di Caterina in espressioni di estasi: una simbiosi d’intenti, di emozioni reciproche e di tenera gratitudine, quasi a volerla ringraziare per la sua presenza sempre cara e voluta. Ella essendo stata la moglie del vaccaro, che prestava servizio per la famiglia Cefaly , al tempo del padre di don Andrea, manteneva abitudini di ossequio e completa stima verso il maestro, tanto che usava rivolgersi a lui chiamandolo “U Signurinu”. Un rispetto e una dedizione che il tempo non aveva intaccato, anzi era pian piano cresciuta di valore mutando in una forma rara di sentimento, di amorevole compagnia, necessaria condivisione del proprio mondo e scrigno di quelle esperienze vissute nella vita insieme. Caterina era sempre presente nei pensieri di don Andrea, che si premurava per la sua salute, per i suoi bisogni e addirittura era solito inviare qualcuno quando non vedeva per qualche giorno quella sua donna, provvedendo ad eventuali bisogni e disponendo per lei. Le visite al suo “Signurinu” negli ultimi tempi si erano diradate, anche per gli acciacchi che non gli consentivano di spostarsi come un tempo; nei loro brevi incontri si percepiva comunque la gioia per l’altro, nel saperlo ancora vicino, felicità palpabile come gli occhi lucidi dei due vecchi innamorati che, nel silenzio, esprimevano nei gesti e nelle piccole carezze quello che di grande c’era nei loro cuori. Alla fine della giornata, quando le luci del piccolo borgo si accendevano e le case si affacciavano timidamente con i loro profili sulle stradine vuote, il profumo dei camini accesi s’impadroniva dell’aria. In questa atmosfera il Maestro ci accompagnava alla porta dello studio, lungo il corridoio che dava sul terrazzo ringraziandoci per la visita. Un caloroso abbraccio segnava la fine dell’incontro. Nel lasciarci il suo sguardo s’illuminava per l’ultima volta seguendo i nostri passi lenti, nel silenzio.

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